Il viaggio di Shuna di Hayao Miyazaki

Di artisti come Miyazaki ne nasce uno ogni secolo: la fantasia, la grazia e la poesia, e anche una sottile ironia (ricordate il gruppo di pirati chiamati “Mamma Aiuto” in Porco Rosso?), unite ad una sensibilità giapponese molto distante da quella occidentale, lo rendono un personaggio unico. Ho visto tutti i suoi film di animazione, più volte, sempre in originale, insieme ai due figli italonippo. E’ davvero stupefacente la sua capacità di creare storie che vanno dalla classica vicenda di formazione (Kiki) all’epica (Mononoke) dalla più tenera fantasia infantile di Totoro, fino al magico realismo di Porco Rocco e alla realtà di Si alza il vento, ambientato negli anni della Seconda guerra mondiale. Spesso troviamo le ragazze come protagoniste (Nausicaä), che attenuano la violenza dei maschi, come nel caso di Gina di Porco Rosso. In ogni storia c’è qualcosa di nuovo, eppure sembra che via un filo che li unisce, anche una bizzarra avventura come Il castello errante di Howl.

Tra i miei ricordi personali preferiti vi è la prima de “La città incantata” in Giappone nell’estate 2001, insieme all’allora consorte locale e ai due piccolini. Io capivo ben poco di quello che si diceva ma non aveva alcuna importanza, dato che rimasi a bocca aperta, meravigliato dalla bellezza dei disegni e dalla fantasia, che attingeva a piene mani a un patrimonio culturale che avevo appena iniziato a conoscere. Abituato al noioso schematismo e al moralismo dei cartoni disneyani, furono due ore di vera e propria liberazione.

Non potevo perdermi “Il viaggio di Shuna“, che arriva in Italia 40 anni dopo la sua pubblicazione nel Sol Levante (giugno 1983) e che, a sua volta, è un libero adattamento di una leggenda tibetana “Il principe che divenne un cane”. In sintesi, è la storia di Shuna, principe di un piccolo regno tra le montagne, che parte per l’occidente in cerca di un tipo di grano per salvare il suo popolo dalla fame.

La data di pubblicazione è importante, perché “Il viaggio di Shuna” venne disegnato poco dopo l’inizio della pubblicazione in Giappone di “Nausicaä della Valle del vento” in un fortunatissimo manga (febbraio 1982) e prima della sua trasformazione nel primo lungometraggio interamente basato sulle storie di Miyazaki (marzo 1984). In precedenza l’artista aveva diretto Lupin III – Il castello di Cagliostro, che è invece creazione di Monkey Punch ovvero Kazuhiko Kato. Miyazaki voleva fare proprio di Shuna il suo primo cartone, ma non trovò chi credette in lui.

Eppure, chi conosce Nausicaä troverà nel viaggio di Shuna le stesse atmosfere, insieme ai classici temi di Miyazaki: la follia delle civiltà commerciali, industriali e schiaviste; l’ingenuità dei giovani che sperano in un futuro migliore; il pacifismo e il rispetto per gli altri; l’amore disinteressato; la crescita interiore del giovane Shuna alle prese con misteri più grandi di lui e del suo stesso popolo, testimoniata dalla presenza di creature ultraumane che agiscono per motivi incomprensibili, indifferenti agli esseri umani. E paesaggi incredibili, città impossibili e luoghi fuori della comprensione umana.

E’ un alto tassello del suo percorso creativo ed umano, per conoscerlo in un’opera minore, se vogliamo preparatoria, ma intensa come le più importanti.

Aspettiamo adesso con vera e propria ansia “Il ragazzo e l’airone” per il primo gennaio 2024. che in Giappone e nei paesi dove è stato già proiettato ha avuto un colossale successo, pur in assenza di qualsiasi strategia di marketing!

Vita di Antonio Gramsci di Giuseppe Fiori

Ho sempre avuto una grande affascinazione per Gramsci, l’intelligenza che Mussolini voleva spegnere, l’intellettuale geniale e poco conformista, l’uomo politico e il visionario, il carcerato malato e disperato che continuò imperterrito ad usare la sua unica arma per opporsi al disfacimento: la mente. E il padre di famiglia, che non riuscì a godere del suo matrimonio con la russa italofona Giulia Schucht, e venne privato dell’affetto dei due suoi due figli dalla tirannia fascista.

Giulia Schucht con i figli Delio e Giuliano Gramsci

La biografia di Giuseppe Fiori, uscita nel 1966, è ormai un classico. Ho avuto occasione di trovarla mentre ero in Sardegna quest’estate. in una libreria vicino Ghilarza, dove visse Antonio da piccolo (la casa museo invece era chiusa). Ho comprato anche un libro di storie per bambini, composte dalle lettere che lui scrisse dal carcere per i due figli.

Gli aspetti più interessati, che il libro ricostruisce con grande cura, usando anche testimonianze dirette, riguardano il momento della lenta maturazione di Antonio da ragazzo di famiglia povera di un centro secondario di una regione rurale dimenticata ad intellettuale e politico di punta dei movimenti socialisti dell’ante e del primo dopoguerra nella città industriale di Torino. Un salto intellettuale, sociale e politico non di poco conto.

Antonio Gramsci nel 1916 a Torino.

Gli altri temi di rilievo, che richiedono però una conoscenza approfondita del dibattito interno nei partiti comunisti negli anni venti, vanno a toccare il suo ruolo all’interno del Partito Comunista d’Italia, fondato a Livorno nel gennaio 1921, la tensione mai venuta meno tra il massimalismo di Bordiga e lo spietato realismo di Togliatti. Risaltano la sua autonomia di giudizio di fronte all’ascesa del fascismo e all’incapacità dei partiti democratici, compreso quello comunista del dottrinario Bordiga, di fare fronte comune per salvare le libertà civici fondamentali, borghesi ma essenziali per l’attività politica.

Della figura di Gramsci continuiamo a scoprire ancora oggi sorprendenti intuizioni che possono fornire elementi interpretativi per illuminare anche la situazione politica italiana contemporanea: i rapporti tra società e politica, quelli tra il mondo della politica e gli intellettuali (a cui Gramsci dedicò molto studi durante gli anni del carcere), l’arretratezza della società italiana di fronte ai cambiamenti tecnologici e sociali in corso, l’incomprensione da parte della politica nel comprenderli e nel guidarli. Sono temi non unici dell’Italia ma in fondo anche del resto dell’Europa.

E’ anche una questione di metodo basato sulla raccolta delle informazioni e sulla loro analisi senza i paraocchi dell’ideologia o, potremmo dire oggi, senza l’influenza distruttiva della partigianeria delle reti sociali. Il rigore scientifico contrapposto agli slogan, i fatti prima delle idee, lo spirito di servizio prima del protagonismo da salotto e dello snobismo da intellettuale gauchista.

Un modello poco battuto in Italia: dopo Gramsci, il solo Pasolini, anche lui intellettuale scomodo, vittima sacrificale di trame mai completamente chiarite.

La magia delle due ruote di Judy Rosen

Sono le cinque di mattina a Roma. Dopo una notte agitata in cui la piccola Nina si è svegliata dieci volte e con le sue zampette in perenne movimento mi ha rivelato che ha sognato di vincere il Tour de France nel 2043, privo ormai di sonno, ho ripreso in mano il libro di Judy Rosen che da quasi un anno mi faceva compagnia sul comodino. “La magia delle due ruote”.

E sono arrivato all’ultima pagina senza accorgermene. La magia è finita. Un altro libro da passare dal comodino alla biblioteca, nella sezione delle “Storie che mi hanno cambiato la vita”.

Eccolo qua, nella versione italiana, uscita non da molto per Bollati Boringhieri. “Storie e segreti della bicicletta in giro per il mondo.” Ed in giro per la storia, cominciando dalla prima bicicletta che potremmo riconoscere come tale, la draisina inventata nel 1817 dal nobile tedesco Drais on Sauerbroon, che non aveva né pedali né freni. E che, guidata dai dandy sfaccendati di inizio Ottocento, diventò il terrore di Londra

Ho avuto il piacere, per mesi, di navigare in un mondo di magia. Il mio mondo. La bicicletta. A volte ne leggevo un capitolo intero, a volte solo poche righe, prima di crollare addormentato. Alcuni capitoli li ho riletti più volte e quasi sempre ricominciavo la lettura una dozzina di pagine indietro, come se non volessi terminarlo. Ho provato anche a leggere qualche riga alla piccola Nina, tanto per invogliarla. Magari il Tour de France non lo vincerai, ma faremo dei bei giri in bici, no?

Nel viaggio in cui mi ha condotto Judy Rosen, ho conosciuto personaggi come Danny MacAskill, questo signore qui sotto che riesce a portare la sua MTB letteralmente ovunque. Volete vedere cosa è capace di fare? Guardate questo video con una sua gita per le campagne scozzese e, se non avete problemi di vertigini, quest’altro sulle montagne della sua isola nel Mare del Nord.

Con una prosa giornalista ed elegante, Rosen mi ha portato nel Bhutan, a conoscere questo ciclista che sta conducendo la sua bicicletta lungo il ponte a sospensione più lungo del mondo. Lo riconoscete? E’ il re del Bhutan (dalla didascalia non si capisce se si tratta dell’attuale regnante o di suo padre, il quarto monarca).

Infatti, il quarto re del Bhutan, Sigme Singye Wangchuck, che ha regnato fino al 2006 prima di abdicare in favore del figlio, viene spesso visto pedalare per le colline di Thimpu, la capitale del Bhutan. Wangchuck, monarca illuminato, che ha portato il Bhutan verso la modernità, senza rinnegare le tradizioni locali e senza svendere il paese alle multinazionali, non poteva non essere un amante della bicicletta. E la sua passione si è diffusa per il suo piccolo impervio paese tra le montagne.

Tra le altre cose che ho scoperto, è il Tour del Dragone, una competizione di Mountain Bike di oltre 250 chilometri e qualche migliaia di metri di dislivello su passi himalayani fino a 3500 metri di altezza, da fare in un giorno.

Ed ecco la prima immagine di una bicicletta, che si trova nella chiesetta di St Giles (ad ovest di Londra) e che potrebbe essere di questo secolo o del XVII secolo, non è assolutamente chiaro e neanche importa molto. Un cherubino che suona le trombe del giudizio universale in bicicletta potrebbe essere un chiaro monito a pentirvi, o voi amanti delle automobili!

Ho conosciuto i ciclisti di Dhaka, che sostengono l’economia locale trasportano tonnellate di prodotti e di passeggeri nel caos del peggiore traffico al mondo. Se c’è una cosa della prosa che amo più di instagram è che abili scrittori come Rosen sono in grado di farti sentire il puzzo di sudore, combustile bruciato e gomme sciolte sull’asfalto…

Sono stato in bicicletta a Pechino, nell’epoca d’oro della bicicletta, prima che lo sviluppo la rendesse un oggetto per poveri, stigmatizzato e gettato in immense carcasse di metallo per far posto alle automobili.

E prima che la crescita economica facesse emergere una nuova generazione di ciclisti urbani stufi di vivere in una scatola di metallo e gomma. Corsi e ricorsi della storia. La stessa che abbia vissuto noi in Italia dal dopoguerra, quando la bicicletta era la sovrana nella penisola e il Giro d’Italia era la manifestazione sportiva più importante dell’anno, prima che una stupida concezione dello sviluppo e la FIAT distruggessero le nostre città.

Insomma, una stupefacente pedalata per la storia e per il mondo, incontrando le creature che vivono sulla o con la bicicletta.

Fino a qui?

Vita da padre

“Sono le dieci e tutto va bene!”

E’ il messaggio rassicurante che mando via WA alla madre della creatura. Mi fermo tuttavia a riflettere…. Sono ancora le dieci? Ma davvero!? Vuole dire che mancano più di sei ore al ritorno della mamma? Ho ancora più di quattrocento minuti da trascorrere con questa preoccupante creatura ad alta mobilità?

La creatura, sia detto per chi non la conosce, è mia figlia Nina. Otto mesi compiuti. E’ una tenerissima bambina (la foto qui pubblicata non è la sua) con una potenza vocale di centodieci dolorosissimi decibel, in pratica la forza di un trombone suonato male da un musicista con quattro polmoni.

I bambini piangono. Nina urla.

Mercoledì scorso siamo rimasti soli in casa, papà e lei. Soli nel senso che non c’era alcuna salvezza. Dovevo cavarmela con le mie forze. La baby-sitter si era ammalata, la mamma doveva assolutamente andare in ufficio ed io mi sono offerto di prendere un giorno di ferie per provare l’esperienza della paternità responsabile. Ora, devo fare subito una precisazione per le cinque femministe radicali che leggono i miei post: io SONO un padre responsabile: curo mia figlia, so anche vestirla (più o meno), faccio tutto quello che è necessario in casa e, come buon padre, mentre la madre si dispera, resto completamente indifferente al pianto della bambina. Deve esserci qualche componente genetica che non si è incastrata bene.

Tuttavia, non avevo mai passato un’intera giornata con mia figlia, da solo.

Ovvero, non avevo mai sperimentato sulla mia pelle e nelle mie orecchie cosa accade ad una madre italiana tipica quando la mattina si ritrova da sola con la sua creatura mentre il padre se ne va da un’altra parte.

Ho conosciuto delle nuove dimensioni di tempo e spazio.

I momenti migliori sono stati decisamente quelli della passeggiata al parco, l’unico nel raggio di un chilometro. Questo, in zona Prati delle Vittorie (foto presa da internet, probabilmente in un pomeriggio d’inverno).

Intanto, camminare per il quartiere, come uomo e padre, con un passeggino, è un’esperienza curiosa. Saranno le mie paranoie ma mi sento osservato, come se fossi, per dire, una persona di oltre venticinque anni ad un concerto di Sfera Ebbasta. Non ci sono altri uomini in giro, a parte qualche anziano che trascina la sua solitudine appeso ad un bastone e gli avvocati seduti ai tavolinetti dei bar per l’aperitivo delle dieci o il cappuccino delle undici, tra un’udienza fallimentare e l’appuntamento con il cliente che sta per divorziare dalla moglie e vorrebbe non rimetterci le finanze.

Ci sono molte donne, nonnine e ziette poco più robuste degli anziani. Appaiono anche delle mamme. Ce ne sono di due categorie principali: la mamma col passeggino e la mamma che probabilmente il bambino l’ha mollato alla tata peruviana e che se ne va al bar con le amiche, dopo una seduta dal parrucchiere. Le prime sono in genere spettinate, con un grigno nel volto che un tempo ricordava un sorriso, ma oggi compone più volentieri la frase “ma chi me l’ha fatto fare?”. Le seconde sono lucide di lacca, allegre e senza pensieri. Le prime hanno borsoni in cui tenere l’essenziale nel caso in cui il bambino si sporchi/cada/vomiti/faccia la cacca/ venga schiacciato da un’astronave/venga assalito da germi di ignota origine/arrivi un drone russo. Le seconde hanno le borsette.

Tra di loro, un padre che cerca di mimetizzarsi tra le ombre dei palazzi scottati da un sole feroce di settembre. Io non ho portato nulla per la bambina. Ho le chiavi di casa, il cellulare per chiedere consiglio alla madre (ora impegnata in un corso di formazione) e il bicchiere antisoffocamento con l’acqua. Di cos’altro potrebbe avere mai bisogno? Mica la cambio per strada. E i droni russi si perdono nel labirinto delle strade romane. Prima di uscire ha fatto anche la merendina ingollando un’intera prugna (tagliata a tocchetti, non sono un criminale), quindi i bisogni fisiologici basici sono soddisfatti. Mangerà al ritorno.

Intanto Nina dorme. E’ crollata non appena siamo scappati di casa. E’ una situazione curiosa. Da un lato mi sento soddisfatto che si sia appisolata, ma non è che (retropensiero) si annoia con il papà?

Ora, mi rendo conto che in base al manuale del padre perfetto (che, quando sarà scritto, si comporrà di una pagina invece delle duecento della mamma esemplare con una sola frase “Non chiamare la madre se non sai cosa fare!”) ho già commesso vari errori. La mia maggiore ansia, in questi minuti, è che lei si svegli e inizi a piangere per una sua qualunque importantissima fondamentale ragione, che non riuscirò mai a scoprire, non nel tempo in cui mi è concesso di vivere, certo non prima del ritorno della mamma. Il risveglio della belva è il mio grande cruccio. La bambina percepisce l’ansia del genitore e il genitore ansioso potrebbe scatenare una feroce reazione con una sirena tale da richiamare i pompieri che sono stazionati non troppo lontano.

Perplesso, decido di fermarmi un secondo per controllare che dal lavoro non mi abbiano mandato importantissime mail. Mentre scrollo nella casella di posta elettronica, scoprendo con angoscia che il mio capo vuole sapere quando parlarmi di una certa persona, vedo un occhio che si apre. Subito seguito dall’altro. Orrore. Nina! Sono passati appena dieci minuti da quando ti sei addormentata. Quegli occhi, che la mattina davanti alla madre si componevano in un romantico motivetto di amore filiale, mi stanno rimproverando. Perché sono qui? Dove mi hai portato? Ho fame, sete, sonno e ho la cacca. Ma, prima che nella sua piccola mente da fondamentalista dei bisogni compaia la domanda finale “dov’è la mia mamma?” butto il cellulare in tasca e riparto col passeggino. La persona che cerca il mio capo, non saprà mai perché non è stata cercata.

Colpa mia.

La bambina si riaddormenta.

Per evitare altri incidenti del genere, decido di non fermarmi più. Camminerò così per un’ora e mezza nel quartiere, fischiettando Battisti (“camminerò, qualche cosa farò…”), cercando di immedesimarmi nel ruolo di padre perfetto. Cosa so fare, in pratica? Spingere il passeggino, fare la spesa, comprare una rivista in edicola. Non molto. Il passaggio al supermercato per comprare un cesto di banane è funestata dal terrore che nell’infinita sosta alle casse Nina possa risvegliarsi (perché, tu, cara nonnetta, devi comprare la fettina con gli spiccioli e ti ostini a dare quei novantanove centesimi che fanno la differenza tra la vita e la morte?)

Nina apre una mezza palpebra. Ha l’espressione di una sogliola adagiata sul fondo che aspetti una preda. (Ma perché la cassiera non si fida della tenera vecchietta e riconta tutto il mucchietto di monetine nelle sue mani, mani grandi con dita grossa, che non riescono a prendere il cent?)

La fuga è veloce e riesco a tenere Nina addormentata fino al ritorno a casa.

E’ mezzogiorno. Immagino i miei colleghi di lavoro impegnati in produttive riunioni in cui prenderanno brillanti decisioni sul destino dell’Organizzazione Pararapapà. Avrei potuto esserci anch’io, ma oggi non ci sono e le mie idee per convincere il presidente dell’Assiomai a non bombardare il Gioiamai resteranno chiuse nei cassetti delle buone intenzioni. Eccomi qua, invece, con lei, la mia bambina che, adagiata sul appettino antiscivolo e anticapocciata, tra i suoi giochi colorati, è sveglia e perplessa. Non mi chiede decisioni immediate. Credo che si chieda come mai non ci sia la baby-sitter e come mai la madre non sia ancora apparsa e che stia cercando di ricollegare la mia faccia a qualche sensazione piacevole.

Seconda precisazione per le femministe antiuomini che mi leggono. Io amo tenere in braccio la mia bambina, abbracciarla e farle le coccole, ma ci sono momenti, proprio come adesso, in cui lei non ha proprio alcuna idea di chi sia e quale sia il mio ruolo in tutto questo, che mi mettono in crisi. Beh, figlia, un giorno ti spiegherò come sei nata. Adesso però tu fai la brava con i pupazzetti che papà prepara il tuo pranzo. Al mio penserò dopo.

Terza precisazione per le femministe inferocite contro tutti gli uomini. Il pranzo è già stato preparato dalla mamma, in comode campanine di plastica: il vasetto della verdura, il vasetto delle proteine. Devo solo mescolare tutto, scaldare, aggiungere la farina e l’olio, magari pure un po’ d’acqua per rendere la pappa meno simile ad un triste fango liquido. Nina inizia a piangere nell’attimo in cui scompaio in cucina, pur non essendoci più di due metri di distanza. Lo spazio fra salotto e cucina diventa improvvisamente un Oceano Atlantico, solcato da iceberg e mostruosità ittiche che stanno per servire la bambina allo spiedo. Non c’è niente da fare. Il pulcino Pio, il gatto Poko, il cavallo Ippo, il cane Stupido e la mucca Caroline non riescono a consolarla. C’è bisogno dell’arma risolutiva.

L’abbraccio.

Ma c’è un dubbio amletico. Niente abbraccio: pappa scaldata. Tanti abbracci: pappa bruciata.

Abbraccio prolungato con un braccio ormai mostruosamente da culturista, mentre con l’altro rimesto il rimestabile. Con ampie contorsioni, riesco comunque a conzare la tavola con vasetto di acqua, ciotola di plastica, cucchiaino di silicone, bavaglino e passeggino. Sono ancora le 12,30, ma com’è che in ufficio ti siedi alle 9 ed è già ora di pranzo?

Come infilare ora nel seggiolone una bambina che ha nelle gambe la forza dell’Incredibile Hulk e sta diventando dello stesso colore per lo sforzo di urlare? Che poi il papà modello, con la sua maglietta nera con la scritta “Cyclopath”, memento di un’epoca felice in cui il mondo era popolato di biciclette che correvano felici tra i fiordalisi, crede che il pianto sia dovuto alla fame. Speranzoso nel buon esito dei suoi sforzi, con il primo cucchiaio fumante di saporite lenticchie, che fiducioso attende la boccuccia di Nina, il papà esemplare vede frustrate le sue aspettative quando la bambina scoppia a piangere e chiude la bocca in una serrata da padronato anni ’20.

E adesso? Non mangi? E non mangiare!(Reazione maschile tipica.) Mica muori di fame!!!

Ma se muore di fame, chi glielo dice alla mamma?

A scanso di equivoci con gli assistenti sociali che stanno per bussare alla mia porta, prendo la bambina in braccio per cullarla. In altre situazioni, ho visto che si rassicurava e riprendeva a mangiare felicemente.

Dorme.

Questa poi. Ma figlia del cielo, hai dormito tutta la mattina e adesso dormi pure quando è ora di mangiare? Ti stai proprio divertendo con papà. Ai tuoi occhi sono allegro come una dichiarazione dei redditi. E va bene. Forse questa potrebbe essere l’occasione giusta, anche per me, per schiacciare un pisolino. Escluso che riesca a metterla nella culla. Non appena il suo rilevatore d’altimetro percepisce che sta per atterrare su un letto, Nina strilla. L’unico modo per placarla è tenerla attaccata al petto. Pur dolorante la scapola a causa del suo cranio, steso sul letto, riesco a prendere sonno per un’ora circa. Anche così, rifletto, si crea un forte legame tra padre e figlia. E comunque la pennica è tutta salute.

In tutto questo, la madre non si fa viva. Me la vedo che butta il cellulare in un bidone nei pressi di Fiumicino e che con pantaloncini ed occhiali da sole decolla per Zanzibar.

Alle due Nina si sveglia col sorriso più bello del mondo. Allora vuoi bene anche a papà? Dico, penso e ripeto. Lei aggrotta la fronte, in uno sforzo sovrumano per decifrare il cumulo di scemenze che le racconto. Sbaciucchiamenti, cambio pannolino (un chilo di produzione solida e liquida, i miei complimenti, se gli adulti rispettassero le stesse proporzioni, le città sarebbero sepolte) e ci avviciniamo alla ciotolina che ha atteso, compunta, per oltre un’ora.

E lei mangia tutto. Ma proprio tutto. Anche se la pappa era fredda e il papà perfetto non ci ha pensato a scaldarla.

Poi si mette sul tappetino con papà a giocare.

Gioia! Miracolo! Felicità! Ma allora la vita è bella davvero. Ce la posso fare anch’io! Potremmo sopravvivere anche su un’isola deserta (sebbene… come potrei raccogliere le noci di cocco dalla palma di cocco con il cocco in braccio?!)

Il resto del pomeriggio sembra una discesa di amore e tranquillità. E alle 4 e 40 il rumore della chiave nella toppa annuncia che la mamma, alla fine, non ha preso l’aereo per Zanzibar, ma è tornata sana e salva col motorino da Via Cavour, appesantita da due borse e il computer. Nina strilla, sorride e scappa verso la madre con il suo gattonare un po’ scoordinato. La mamma è tornata! Il papà è salvo, anche se un po’ ci rimane male. Mamma batte papà 3-0 (senza partita, sconfitta a tavolino per manifesta incapacità organizzativa ed emozionale).

Conclusioni.

Tutto ciò che ho raccontato qui sopra è avvenuto veramente, con qualche legittima licenza poetica… Alla fine della giornata quello che mi resta è che stare con una bambina così piccola richiede uno sforzo particolare: non è la stanchezza di parlare con gorgheggi, né quella di non avere un momento di vera pace (quando Nina dorme, il tempo sembra scorrere in modo accelerato), nè quella di non capire o di non sapere cosa fare. E’ il totale coinvolgimento fisico, intellettuale ed emotivo che richiede una piccola bimba. Come dire, non è che puoi leggere le mail e cullare il bebè. Occorre dedicarsi completamente, con ogni risorsa. E’ qualcosa che non avevo mai provato.

E, ad estrema sintesi, come risponderei a voi, che mi avete seguito pazientemente fin qui, femministe arrabbiate e maschi preoccupati della vostra mascolinità, se mi chiedeste: lo rifaresti?

Sì. Anche domani.

(“A proposito, domani è sabato, stai tu con Nina mentre vado con le amiche in centro, no?” Commenta la mamma. )

“Sono diventato la Morte”

Così disse Robert Oppenheimer dopo aver assistito al primo test nucleare della storia umana il 16 luglio 1945. Che lo abbia detto davvero, non è del tutto sicuro, ma ha dichiarato di averlo pensato. Citava un passo della Bhagavad-Gita, uno dei poemi sacri dell’induismo. “Adesso sono diventato la Morte, il distruttore dei mondi”.

E’ uno dei tanti momenti di forte emozione del film di Christopher Nolan, che ho istantaneamente collocato, dopo una visione di tre ore senza respiro, tra i monumenti del cinema del XXI secolo, forse dell’intera storia del cinema.

Non sono un critico, per cui non riuscirei a trovare le giustificazioni letterarie, filosofiche e tecniche per questa mia affermazione, su cui non sono per fortuna da solo, ma riuscire a concentrare in un solo film, un tale concentrato di storia, politica, sentimenti, grandezze e debolezze umane, sembra un miracolo che solo chi non conosce Christopher Nolan potrebbe credere che sia stato un caso fortuito. Detto fra noi, credo che gran parte dei film di Nolan abbia settato gli standard per quello che chiamiamo “grande cinema”, ovvero pellicole di ampio respiro che trattano di momenti chiave della storia (Dunkirk) o del futuro (Interstellar).

Nel film troviamo tutti i più grandi scienziati della fisica del XX secolo: Albert Einstein, Niels Bohr, Werner Heisenberg, Enrico Fermi, Kurt Godel, Leo Szilard. Si parla di comunismo e dello stretto rapporto che Oppenheimer mantenne con questi ambienti, pur non essendo mai iscritto al partito, che in America non visse mai momenti facili. Si parla dell’ansia della competizione nucleare con i nazisti (di cui era responsabile proprio Werner Heisenberg) e dell’emergere dei dubbi di Oppenheimer sull’utilità di testare l’arma atomica quando la guerra contro la Germania si era conclusa vittoriosamente e quella contro il Giappone aveva il destino già segnato. Appare il contrasto tra la naivité dello scienziato che crede che l’arma suprema metterà fine a tutte le guerre e il cinico realismo dei politici che intendono mostrare ai russi la potenza degli Stati Uniti. E si parla del rapporto di Oppenheimer con la realtà, con le donne e con se stesso, dipingendo un personaggio complesso, il prototipo dello scienziato ingenuo ed idealista, incapace di comprendere fino in fondo le conseguenze delle sue scelte, a livello personale e collettivo.

In questa complessità intellettuale e morale si nasconde la chiave del film. Nel 1954 Oppenheimer, che aveva ottenuto un rilevante peso politico all’interno del governo americano, nonostante le sue simpatie di sinistra e i suoi sempre maggiori dubbi sulle arme atomiche, in particolar modo sullo sviluppo della bomba termonucleare, finì intrappolato in una congiura ordita dall’ambizioso alto funzionario Lewis Strauss, presidente della Commissione per l’energia atomica, che era stato pubblicamente umiliato da Oppenheimer qualche anno prima, in una scena che Nolan più volte riproduce nel suo film. Alla fine, dietro le grandi scelte strategiche, politiche e scientifiche si nascondono esseri umani, con il loro carico di frustrazioni, paure, ambizioni, debolezze e speranze. Oppenheimer non è certo granché migliore di Strauss, per quanto nel film facciamo il tifo più per il tormentato fisico che si è reso conto di aver aperto le porte dell’inferno sul mondo, che per un freddo burocrate geloso.

Il contrasto tra Strauss e Oppenheimer guida il film nel corso delle sue tre ore. Lo si può interpretare come lo scontro tra due mondi incomunicabili e reciprocamente ostili: il conservatore e il liberale, il realista e l’idealista, il cauto manipolatore e la persona che non conosce la prudenza, in altre parole le due versioni speculari dell’America che a noi dall’altro lato dell’oceano affascinano e ripugnano allo stesso tempo e che ritroviamo in tanti momenti della storia degli Stati Uniti. L’idealismo di Lincoln, di Wilson, di Roosevelt, di Obama, e il tragico realismo di Truman, Nixon, Reagan e Bush.

Lewis Strauss

Una gita a Montanara Marina

Giungemmo a Montanara Marina dopo aver sbagliato l’uscita dell’A17 in direzione sud, mentre andavamo a passare le vacanze, malinconici e rassegnati, sulla Costa dei divertimenti, dove sono proibiti i temi morti e si mangia o si balla o si nuota o si gareggia sulla sabbia.

La “Perla del Golfo dei Tacchini vi attende” recitava un incantevole cartellone della ProLoco con un gruppo di tacchini danzatori e un mare così lucido da sembrare vero. Non perdemmo altro tempo e decidemmo di fare una deviazione, non avendo voglia di arrivare subito alla Costa. Ci avventurammo lungo i tornanti della SP 132 non senza indulgere in una merenda nell’Abbazia di San Pastore a base di Finocchiotto Dop con Sale cloridico Igt, a cui aggiungemmo una mezza bottiglia di Sanbeverone, il vino liquoroso della regione.

Il mare si spalancò dopo una discesa di tornanti spettacolari, il paese ci apparve come una distesa di case colorate e balconate, con piccole trattorie familiari e botteghe dove gli artigiani, seduti su sedie di paglia di Bisolto Doc, lavoravano le penne di tacchino, per realizzare scarpe, sciarpe, arpe, arpioni, carpioni, campioni, cartoni e burattini, la cui bellezza e varietà ci erano del tutto ignoti .

Sul lungomare, coppie di ragazzi e ragazze, padri e madri, nonni e nonne erano impegnate nell’annuale Gara del Bacio Artistico, in cui una severissima giuria locale esaminava le pose artisticamente più originali. I favoriti, una coppia di masticatori di chewing-gum della Frazione di Marina di Sopra, furono battuti, con delusione della gioventù locale, nonostante i baci a ritmo di hip-hop, da un ben più maturo, statico e tradizionale duo di ottantenni che ballavano il tango. Primo premio, un sacco di Farinagra Docg, presidio Slowfood, con cui si impasta la famosa Crescia de mä con acciughe, salmi e salsa dolcenera, da cuocere nella sabbia.

Calò il tramonto, e assaporammo un aperitivo a base di Giallusporcu 2005 Docg e di Cozze disobbedienti Dop, che si trovano solo nella contigua baia di Afrore, e vanno mangiate crude appena pescate; hanno un profumo piccante di nerofumo con note di papavero, ibis, rosmarino e retrogusto di coca-cola. Giuseppe, proprietario dell’Hostaria dell’Afrore, ci disse che “potete farveli venire in città ma sapranno di plastica e sabbia rappresa con tonalità di copertone.”

Ormai giunta la sera, il buon Giuseppe ci mise a disposizione una stanza nella sua Hostaria che, a dispetto del nome, aveva un delizioso sapore di Limoni di Panticceria, altra specialità locale, che impastata con la farinagra e arricchita di cozze disobbedienti, formava il tradizionale pasto del contadino, ricco di omega-5, acidi insaturi, proteine nobili e antiossidanti. Anche se ne mangiammo più delle nostre capacità di assorbimento, a mezzanotte ci sentivamo distesi e con la mente sgombra, pronti ad ascoltare i canti dei pescatori, declamati senza accompagnamento musicale e rigorosamente in dialetto marinesco, di cui naturalmente non capimmo una parola, se non un’arcaica risacca di emozioni sconosciute. Ci fermammo a parlare con loro, bevendo a garganella da grosse taniche di penne di tacchino un Giallusporcu familiare aspro e intenso, i cui riflessi si fondevano con quelli della luna.

Il giorno dopo, dopo una colazione a base di cornetti di Farinagra e Cappuccino di cozza Igt, chiedemmo a Giuseppe di poter affittare la stanza per una settimana. Avevamo deciso di restare a Montanara e di lasciar perdere la Costa dei divertimenti.

Ci guardò afflitto “mi dispiace ma la stanza è già prenotata”. Alla nostra domanda di indicarci un altro alloggio, egli sospirò e disse “tutto il paese è prenotato. Oggi arriva un torpedone di giornalisti americani che vogliono mangiare le cozze disobbeddienti e nel pomeriggio arriverà la famosa cantante Bee-Tch che pare sia diventata pazza per la Crescia de mä.”

“Ma la Bee-Tch è vegana!”

“Infatti” disse sospirando Giuseppe ,”ha chiesto di togliere le acciughe, i salmi e di cuocerla in un forno elettrico, perché lei ha paura delle malattie.”

Quando gli chiedemmo se avremmo potuto tornare in settembre, egli rispose che aveva già affittato la stanza su hairbnb per i prossimi sei mesi. Fioccavano le prenotazioni da ogni parte del mondo. “Tutti vogliono le nostre cozze e partecipare alla Gara del Bacio.”

Partimmo subito dopo, convinti che le attività senza sosta che ci attendevano nella Costa dei divertimenti avrebbero calmato una certa mestizia del cuore e ci avrebbero fatto dimenticare da dove veniva la sabbia nei nostri sandali.

————————–

Pubblicato originariamente sull’Undici di agosto 2023. Una gita a Montanara Marina – (lundici.it)

Fortezza volante

Di Lorenzo Palloni e Miguel Vila

A quanto pare il 12 giugno 1933 accadde uno strano incidente a Vergiate, paese della provincia di Varese, con la caduta di un misterioso oggetto volante che, secondo l’ufologo Roberto Pinotti, sarebbe stata un’astronave aliena con a bordo due piloti dalle fattezze quasi umane. Lo stesso Mussolini avrebbe ordinato il più assoluto segreto sull’incidente e avrebbe chiesto al presidente dell’Accademia Italiana, Guglielmo Marconi, di indagare. I resti dei veicolo e dei cadaveri sarebbero stati conservati per 12 anni per poi essere trasportati negli Stati Uniti.

Su internet non c’è nient’altro che le presunte scoperte di documenti riservatissimi dell’epoca fascista provenienti da una fonte anonima e consegnati a Pinotti, per cui formulo qualche moderato scetticismo anche sulla veridicità storica dell’incidente.

Fa nulla.

Lo scrittore Lorenzo Palloni (Arezzo 1987) e il disegnatore Miguel Vila (Padova 1993), non diversamente da Pinotti ma con risultati decisamente più divertenti, hanno dato libero sfogo alla fantasia con un avventuroso racconto a fumetti di alieni, spie, intrighi e stragi fasciste. Sono 204 tavole che si leggono rapidamente, anche se a volte ci si perde nei microdisegni che sottolineano alcuni dei passaggi della storia. Non dico nulla per non rovinare il piacere della lettura, tranne ricordare i personaggi principali: Aurelio, ragazzo timido, un nerd ante litteram, con la passione pericolosa per il giornalismo e la fotografia e Benedetta, una ragazzina ebrea bruttina e altrettanto coraggiosa. Intorno a loro, due giovani arrivisti: Attilio (fratello di Aurelio) e Ferdinando, non particolarmente brillanti e che nascondono un segreto che nell’epoca del fascio sarebbe costato ad entrambi ben più della carriera. Tutti questi personaggi, ben caratterizzati e con diversi tratti di ambiguità, si ritrovano coinvolti nel caso della misteriosa esplosione del 12 giugno 1933, su cui cala immediatamente la scure impenetrabile della riservatezza fascista.

Bel disegno con tonalità tra il verdolino e il rosa, misteri e tradimenti in quantità, non poche frecciate ironiche sulle fisse del regime, qualche passaggio non chiarissimo, soprattutto nella storia cornice che inizia nel 1996, e forse qualche salto logico di troppo, peccati veniali nell’ansia di raccontare una storia che ha anche molti momenti di autentica pietà umana

Repubblica italiana 2 giugno 1946-12 giugno 2023

Quello che è andato in scena nel Duomo di Milano lo scorso 14 giugno è stato il funerale della Repubblica italiana

Quello che è avvenuto in questa incredibile settimana è stata una colossale, collettiva e cosciente operazione di riscrittura della storia repubblicana degli ultimi 40 anni, in cui la classe dirigente italiana si è autoassolta di tutti i peccati commessi nel sostenere il berlusconismo, anzi rivendicandolo come proprio e ponendolo come modello per il futuro. Abbiamo seppellito Berlusconi ma il berlusconismo è diventato il DNA della Repubblica italiana.

E’ nata una nuova repubblica che non ha nulla a che fare con le premesse ideali della nostra Repubblica. La loro vittoria è definitiva e storica. Quei valori di uguaglianza, libertà, decenza, rispetto, merito, intelligenza e creatività che avevamo sperato diventassero i fondamenti della Repubblica sono stati sepolti.

La chiesa cattolica, succube come sempre del potere, ha consacrato in diretta televisiva nazionale, in un’omelia astuta, i valori dell’allegria, della vitalità, dell’affarismo e dell’indulgenza plenaria, perché se uno fa affari, commette anche delle scorrettezze ma la legge degli uomini non ha importanza, vale solo quella di Dio. Il silenzio dei cattolici, ancora una volta, è assordante. Nessuno ha detto nulla contro i mercanti nel tempio, tranne qualche prete minoritario. Gesù non potrebbe essere meno avvilito.

Di fronte a questo incredibile spettacolo, in cui una religione ormai svuotata di ogni significato e ridotta a paravento del potere, legittima l’operato di una persona che ha distrutto politicamente, economicamente, socialmente e culturalmente l’Italia, non possiamo che riporre le armi ed esprimere un senso di profonda rassegnazione. Abbiamo perso. Siamo minoranza e lo saremo per decenni.

Abbiamo visto il potere italico, compatto senza alcuna eccezione (mancava solo Giuseppe Conte), celebrare la nascita della nuova repubblica. Siamo tutti berlusconiani adesso. Lui ci ha plasmati e ci ha cambiato il DNA.

Ma non è niente di veramente nuovo. E’ l’eterna classe dirigente italiana, che ogni volta che teme di perdere il potere rinserra le fila come una testuggine romana. Una classe rappresentata da uomini vecchi, che sono cresciuti insieme, gomito a gomito, in una comunanza di miseria intellettuale nascosta solo dalle superficiali divisioni politiche. E’ vero, ci sono delle donne tra i nuovi padroni e, sinceramente, questo mi dà qualche motivo di speranza. Donne di potere, ovviamente, la presidente del consiglio e la padrona del gruppo mediatico, a cui, in qualche modo, tutti gli altri devono rendere omaggio, perché sono solo loro a detenere un potere sostanziale in questa amatissima disastrata penisola.

E’ un potere di conservazione ed arbitrio, in cui al popolo viene dato quel tanto che serve a placarne la rabbia, una coscia in televisione, un quiz milionario, un talent per sfondare come i Maneskin, cronaca nera 24/7, libertà di evasione fiscale e guerra agli immigrati. Il popolo sarà contento, potrà sperare nella fortuna e nel frattempo sentirsi protetto dall’orda barbarica di donne, uomini e bambini disarmati che cercano scampo dai disastri che la nostra ingordigia consumistica ha provocato in tutto il mondo.

Avevamo davvero sperato in meglio, nel giugno 1946. Per un po’, ci siamo illusi. Negli anni sessanta e settanta, ventennio di grandi speranze anche se funestata da una stupida cieca violenza, non solo fascista, si agitavano i fermenti di un popolo che stava finalmente imparando a gestire la sua Repubblica e la sua democrazia. Tutto era in discussione: i rapporti sociali, economici, politici. Si aprivano le università alle nuove classi, si creava una scuola media per tutti, si voleva istruire il popolo, renderlo partecipare del boom. C’erano mille iniziative dal basso, per la casa, per l’uguaglianza, per i diritti sessuali, per le donne, per i giovani, che minacciavano di erodere il secolare potere dei baroni italici.

Il potere ha fatto di tutto per impedire al popolo italiano di crescere e di diventare libero di esprimersi nella sua varietà culturale, sociale, linguistica e sessuale. La genialità degli italiani non è quella del singolo, unto dal signore, ma si deve esprimere in una comunità che ha degli scopi collettivi. Il genio caro all’eterno potere italiano invece non vuole una comunità di persone autonome, competenti e responsabili. Mitizza il genio assoluto, lontano dalle banali regole sociali. E allora ecco che a fine anni settanta è apparso il genio dell’imprenditoria, poi dello sport e della politica. Come ha fatto a diventare un genio, se non distruggendo sistematicamente intorno a se ogni possibile rivale? Se non circondandosi di personaggi leali ma mediocri. Pensate che ad inizio anni Ottanta c’erano tre canali televisivi privati con tre distinti proprietari. Oggi esiste un solo monopolio televisivo privato. Il pluralismo finì strozzato in culla. E così in tutti i campi. Curiosamente, fuori dall’Italia e dalle sue protezioni politiche, il gruppo milanese è scarsamente importante.

Non era un genio, l’imprenditore milanese. Se lo fosse stato, avrebbe coltivato una classe dirigente all’altezza, che ne avrebbe continuato l’opera. Se fosse stato davvero abile, avrebbe costruito le basi perché il Milan diventasse come il Real Madrid o il Barcellona, vincente quasi ogni anno, non solo quando ci sono i soldi. E’ stato facile trionfare, con i soldi della mafia, gli amici massoni, le protezioni politiche e i giornalisti amici, comprati uno per uno, tutti, tranne Indro Montanelli.

A parte i due figli, questo personaggio non ha lasciato nulla dietro di se. E’ stato un genio perché ha soffocato l’emergere di altri possibili geni.

Questa è la forza del potere in Italia. Distruggere sul nascere ogni genialità, tranne quelle che accettano di entrare nel sistema condividendone i valori. Questa è la promessa del nuovo regime: nulla fuori di noi, nulla fuori di noi, nulla contro di noi. Vi ricorda qualcosa questo motto?

Post scriptum.

Non la conoscevo se non di nome ma vorrei salutare con affetto Flavia Franzoni, professoressa universitaria attenta e gentile, specchio di un’Italia fuori dei salotti televisivi, e Romano Prodi, che per un breve periodo ha incarnato la speranza di un vero cambiamento in Italia, prima di essere accoltellato da un suo alleato, Fausto Bertinotti. E di essere di nuovo accoltellato alle spalle da un altro alleato, Clemente Mastella. Ed infine, di essere collettivamente accoltellato da 101 parlamentari del PD.

La morte delle emozioni

Ho provato a sentire le mie emozioni quando lunedì mattina è arrivato il grande annuncio. Inaspettato a dire il vero, nonostante che fosse chiaro che a 86 anni la morte è una possibilità statisticamente elevata. Passata la sorpresa della schermata del Corriere e il primo scambio di messaggi con gli amici e la famiglia, è calata su di me una coltre di apatica indifferenza.

“Che ne pensi?” Boh.

“Festeggiamo?” Che cattivo gusto.

“Vuoi piangere?” E per che cosa?

Indifferenza.

Più tardi, accendendo la televisione sugli speciali che andavano in onda nella cattedrale di Santo Bruno in Rai e nel palasport a reti unificate di Mediaset, provavo solo fastidio e una pena infinita nel sentire i vecchi parlare di un altro vecchio con toni da vecchi. Ho pensato: che tristezza questi mediocri personaggi, ecco la famosa classe dirigente italiana, che si autocelebra davanti al corpo del padre, con l’abito buono, la favella sciolta, il sorriso compiaciuto, come quando la domenica va a messa per celebrare il vuoto rituale del farsi vedere.

Ho guardato la mia neonata pacificamente addormentata dopo una giornata di urla da ostrogoti sul limes romano. “Almeno lei non vivrà sotto il suo ghigno”.

Indifferenza. Non riuscivo a sentire nulla per la persona che ha costituito ai miei occhi per tre decenni l’uomo nero.

Siamo stati segnati da quest’uomo. L’abbiamo ringraziato per aver spezzato il monopolio RAI, regalandoci una televisione più variegata, leggera, colorata. Siamo la generazione del Drive-In (di cui non avevamo neppure lontanamente capito, a quindici anni, il pericolo latente), di Hazard e di Deejay Television con Gerry Scotti ancora magro e la splendida Kay Rush, che credo fosse norvegese e giapponese, insomma una combinazione tipo quaterna sulla ruota di Pistoia. Poi sarebbero venuti Striscia la notizia e Paperissima e ci siamo resi di cosa era successo. Purtroppo era troppo tardi per lamentarsi, perché nel frattempo anche la RAI era stata popolata dagli ultracorpi di Amadeus.

In qualche modo abbiamo anche apprezzato il suo ingresso nel calcio, anche se il nostro cuore batteva e continua a battere per la Maggica, che in quegli anni non se la passava granché bene. Dopo anni di vacche magre, a parte quel miracolo italiano che fu il mondiale dell’82, a fine anni ottanta il calcio italiano era tornato alla grande. Il MIlan vinceva tutto. La Serie A diventò il miglior campionato del mondo, con il Milan di Gullit, Rijkaard e Van Basten. Le altre squadre italiane si adeguarono e ci fu un anno (1990) in cui l’Italia si portò via tutte e tre le coppe europee. Era un calcio diverso da quello spartano e taccagno dei Boniperti. Era il lusso ostentato, le copertine patinate, gli elicotteri, gli inni composti da veri maestri di musica e non da personaggi della Corrida. Grazie a quel genio di Sacchi, ci ha portati ad un passo dalla vetta suprema, con il secondo posto disgraziatissimo nel catino di Pasadena.

Siamo stati escoriati nel 1994, quando ci aspettavano, noi baldanzosi di sinistra, freschi dello spurgante occhettiano che ci aveva liberati un po’ troppo in fretta dei residui del comunismo reale, l’avvento del Sol dell’avvenire, per far finalmente superare all’Italia l’epoca delle stragi, della mafia, della P2, del latente fascismo dello Stato. Ci siamo presi una legnata tra i denti.

E abbiamo continuato a prenderle, vittime di una supponenza che non ci faceva vedere quanto il personaggio avesse talmente incarnato il peggio dell’italiano da renderlo non solo simpatico, ma inattaccabile, un teflon della politica a cui non restava attaccata una macchia, grazie anche alla proverbiale capacità degli italiani di perdonare ogni peccato, soprattutto se condito da una barzelletta sporca. Lui era il compagno di scuola sempre pronto alla battuta, che suona la chitarra (ma conosce solo Pupo e Baglioni), che si faceva tutte le ragazze della scuola e che con cinque minuti al giorno riusciva sempre a prendere un sette, mentre gli altri arrancavano tra 6 meno meno e il 5 e mezzo.

Ma questa è storia. Il personaggio era politicamente morto nel novembre 2011, vittima delle sue contraddizioni e della sfiducia che aveva ingenerato nei due potenti leader di Francia e Germania, salvo non luminose ricomparse nel 2013 con il governo Letta e poi con il patto del Nazareno con il suo figlioccio Renzi, che tanto da lui ha imparato. Ma nel 2018, con l’avvento al potere dei cinqueastri e delle camicie verdoline, era stato definitivamente sepolto. Solo lui poteva credere di prendere il posto di Mattarella nel gennaio 2022. La vittoria di Giorgia Meloni lo scorso settembre lo ha definitivamente condannato alla storia.

La mortalità lo ha seguito, infine.

Se ne è andato il 12 giugno 2023 che era già un sopravvissuto, una mummia patetica che mandava pizzini dai banchi del Senato, manco si trovasse in terza media e che alla fine, con quello sguardo da nonno incerto e malaticcio, suscitava anche affetto. Era quasi rassicurante, dopo decenni di nefandezze. Faceva compassione vederlo festeggiare come un ragazzino la promozione del Monza in serie A, lui che aveva creato le regole del calcio moderno. Che tristezza faceva quest’uomo che non voleva accettare la fine del suo tempo. Chissà cosa pensava davvero della donna che ha preso in mano la destra italiana, senza tributargli se non degli onori formali, perché lei si è fatta da sé e non deve rendere conto a nessuno. Tanto meno a lui.

Queste sono forse le ragioni per la mia indifferenza. Ho montato gli occhiali dello storico, che con il dovuto distacco, contempla quella che è stata indubbiamente la sua era. Personalmente credo che sarebbe dovuto diventare presidente della FIGC. Lì avrebbe saputo evitare il naufragio di questi anni mediocri colmi di provinciali Lotito.

Mi resta tuttavia un fondo di rabbia. Non verso di lui ma verso questo paese che lo rimpiange. Mi dispiace ma no, non merita il lutto nazionale. Né il minuto di silenzio. Sarà la storia a rivalutarlo col tempo, come abbiamo fatto anche con grandi statisti criminali come Andreotti e Craxi. Lo Stato deve celebrare con il massimo rito della laicità repubblicana le figure che hanno unito questo paese e non quelle che l’hanno polarizzato e diviso come nessun altro.

———————————

Aggiornamento di mercoledì 14 giugno: il quotidiano Domani ricorda che neppure Falcone e Borsellino ebbero l’onore di tre giorni di lutto nazionale. Sono i funerali di Stato.

Questo mondo non mi renderà cattivo

La seconda serie animata di Zerocalcare

Due precisazioni essenziali, prima di andare avanti.

1) Sono un fan di Zerocalcare, anche se non della prima ora ma dai tempi di “Kobane Calling”, pubblicato su Internazionale nel 2015. Che mi fulminò come se adesso mi apparisse la Madonna di Trevignano in trasferta in città. C’è una ragione essenziale per cui mi piace. Perché diversamente dai tanti personaggi dalle granitiche certezze che affollano i media italiani a sinistra di Eddy Schlein non giudica o, almeno, cerca di arrivare a delle conclusioni che in realtà non risolvono nulla e ti lasciano pure più dubbi di prima. E pure qualche strascico di malinconia per un mondo che potrebbe essere migliore. Tipo che tempo fa lo sentii all’Auditorium di Roma rispondere così all’ennesima provocazione sul perché si occupa tanto dei curdi e non dei palestinesi: “perché i curdi li conosco da vicino mentre i palestinesi no.”

2) Ho visto solo le prime due puntate della serie (sono sei di mezzora l’una, abbiamo raddoppiato rispetto a “Strappare lungo i bordi”) e quindi le mie impressioni sono ancora informi, ma il desiderio di vedere come va a finire resta colossealmente forte e non so se riuscirò a resistere all’impulso di prendermi una sbornia tuttadunfiato.

Qui ci sta anche una precisazione 2bis. Non ci sono spoiler, non avendo visto il resto. Chiaro, no?

Insomma, questo pippone nasce dal fatto che ieri ho avuto la fortuna di vedere l’anteprima della nuova serie animata di Zerocalcare all’ex Mattatoio del Testaccio. Già il posto si conosce perché è frequentato da tipi brutti: creativi, alternativi, artigiani di mercatini bio e naturali ed etici, rivoluzionari e tanti giovani che forse avrebbero qualcosa da dire sul modo come questo mondo sta andando in malora. Gente che pensa, probabilmente, troppa gente, tanto da giustificare le svariate camionette della polizia schierate all’ingresso che uno si chiede: ma che paura possono fare gli amanti dei cartoni animati? All’Esquilino la sede di casa Pound deve essere un circolo di scacchisti perché non c’è mai una guardia.

Il posto mi ha lasciato una strana straniante strapaesana impressione. Il prato è stato trasformato in una sorta di parco divertimenti di Zerocalcare con il “Labirinto esistenziale” e “Pesca le ansie”. Sembrava di stare in una sorta di Disneyland de noantri, in una Festa dell’Unità degli anni ’70 senza bandiere rosse. Mi pare che fosse in contrasto stridente con l’impegno politico che è la cifra dell’autore di Rebibbia. La critica finisce qui, tuttavia, perché era una bella presa in giro. Dal nostro Michele ci si possono aspettare solo due cose: ironia graffiante ed umiltà.

Della prima, ecco un esempio.

Della seconda, ecco lo stile della presentazione. In un mondo in cui domina un ossessivo mediatico protocollo burocratico in cui ogni mossa deve essere preorganizzata, cronometrata, scandita come da copione, verificata, analizzata, studiata e riclassificata, il vestito delle donne sapientemente indossato per lasciare il giusto margine di pelle scoperta in favore dei guardoni in rete, e i tatuaggi si sprecano, possibilmente ad altezza coscia, all’improvviso salgono sul palco Zerocalcare, con un’improbabile mise tardoadolescenziale, i due direttori artistici, la produttrice di Netflix Ilaria Castiglione e l’editore di Bao Publishing. Mancava la presentatrice oca col foglietto in mano per ripetere le classiche banalità da Amadeus (e infatti qui siamo su Netflix), giusto il tempo per uno scambio di battute veloci che sono sembrate assolutamente spontanee mentre Zerocalcare se ne è stato tutto il tempo con gli occhi bassi, con l’espressione di chi si chiede “perché ‘sta pena der contrappasso a un sociopatico come me?”

Detto tutto ciò e tutto ciò premesso, i primi due episodi della serie me’ so’ piaciuti na’ cifra e so’ uscito dar Testaccio che parlavo romanesco come li personaggi de Zerocarcare e me’ so’ annato a pijà un gelato. Stasera me schianto sur divano pe’ tre ore e me li vedo tutti e poi me li rivedo perché lo so che na volta sola nun me basterà. Però poi me devo da ricorda’ che c’ho la neonata nella culla che c’ha fame e tanto se nun magna, quella me strilla che il condominio scenne tutto co li servizi sociali a vede’ che stamo a fa’.

Vedeteve la serie, regà. Nun c’ho tempo pe’ scrive ancora.

Aggiornamento dopo aver visto tutti i sei episodi un’unica serata.

Davvero una gran bella serie, ben sceneggiata, toccante, radicale, graffiante. Uno specchio perfetto della realtà della periferia romana, di ogni periferia. Un trattato di sociologia e politica senza una frase di giudizio morale su nessuno. E senza pipponi!